Olos e Logos è online: il n°10

Editoriale

Il cervello è un frutto del caso? È un frutto di uno dei tanti incidenti avvenuti ai geni, ai cromosomi ed alle loro mutazioni nel corso dell’evoluzione delle specie? Il cervello dell’uomo è un organo che secerne il pensiero come il rene produce l’urina, il fegato la bile ed il pancreas l’insulina?
Alcuni “scienziati” ci vorrebbero convincere che le cose stanno proprio così! Applicano alle neuroscienze il pensiero “riduzionista” che si fonda sul modello meccanicistico basato sull’ipotesi che tutta la realtà fisica possa essere in definitiva “ridotta” e spiegata a partire dai comportamenti delle particelle elementari di cui è composta e dei loro movimenti.
Secondo questi “scienziati” il cervello – questa “macchina” prodigiosa della quale con gli sviluppi tecnologici più avanzati e recenti abbiamo conosciuto qualche tassello in più, anche se siamo assai lontani dal comprenderlo in toto per le funzioni più avanzate che è in grado di svolgere – questa “macchina” sarebbe completamente spiegabile a partire dai suoi componenti fondamentali che per molti di loro si sono aggregati per caso.
Conseguentemente tutto l’umano, dagli aspetti sentimentali ed emotivi, alle funzioni volitive, alla capacità di scelta, alla responsabilità, alla decisione, al libero arbitrio, alla coscienza, tutto sarebbe semplicemente il risultato del lavoro ‘frutto del caso’ di questa “macchina” che è in grado di tradurre in azioni, in eventi pragmatici quanto attraversa la parte più profonda e spirituale dell’uomo.
Pensare che questa “macchina” abbia preso vita da sé per una serie di casualità mi sembra una posizione assai azzardata e soprattutto dogmaticamente assai poco scientifica. La possibilità che il cervello funzioni – come le neuroscienze stanno piano piano iniziando a svelarci – solo in seguito ad una serie più o meno lunga di “casi”, ad una serie più o meno lunga di “mutazioni” ha la stessa probabilità di accadere di quella che una corsa di un gatto sulla tastiera di un computer possa comporre la Divina Commedia o una corsa sulla tastiera di un pianoforte possa “suonare per caso” la nona sinfonia di Beethowen.
Al contrario l’“epistemologia della complessità” insegna che di fronte ad un sistema complesso, pensare di ridurre la sua comprensione e spiegazione alle leggi che governano i suoi singoli componenti significa frammentare il sistema, eliminare le relazioni che lo sorreggono e sostanzialmente impedirne lo studio e la reale conoscenza. L’“epistemologia della complessità” è un principio valido nella matematica, nell’algebra, nella geometria che sono scienze costruite dall’uomo, le cui variabili sono loro intrinseche per cui l’uomo può conoscerle e tenerne conto. È naturale pensare che questo principio sia assai più vero pensando allo studio dell’individuo, della sua psiche e dell’organo che la supporta che sono “realtà” non costruite dall’uomo ed in cui il numero di variabili “sconosciute” è certamente assai più ampio dei pochi dati certi che possediamo.
Il problema di fondo è capire quale sia e debba essere l’atteggiamento dello scienziato e dunque del medico
di fronte alla realtà ed alla sua complessità: il pensiero, lo stato di coscienza e il loro rapporto col supporto “materiale” rappresentato dal nostro sistema nervoso centrale e periferico e dalle sue più intime diramazioni in tutti i tessuti del corpo sono il bandolo di questa inesplicabile matassa. Einstein affermò che ogni volta che l’uomo fa una scoperta non fa niente altro che dispiegare il panorama di ignoranza che sta di fronte a lui. Lo scienziato che raggiunge un traguardo sa benissimo che il filo di lana che ha appena tagliato non è, anche se potrebbe sembrare, un punto di arrivo e tantomeno è definitivo, ma serve semplicemente per ampliare l’orizzonte ed aprirlo a nuove conoscenze. Ma per assumere questo atteggiamento occorre accostare il reale con grande “umiltà” e molti “scienziati” sono così convinti di possedere la “verità” da essere impossibilitati ad avere uno sguardo aperto a 360 gradi perché la loro “miopia” li relega nel recinto del loro piccolo orizzonte. Il mio punto di vista è che occorra ammettere che deve esistere una sorta di salto che fa si che la struttura delle reti sinaptiche complesse è il supporto di una realtà che la supera. D’altra parte il corpo e lo spirito non sono due componenti che cercano di frapporsi e mescolarsi l’uno con l’altro ma sono talmente uniti tra di loro che possono essere paragonati ad una soluzione ed al suo soluto. Il solvente ed il soluto che si mettono insieme costituiscono una soluzione tale che al suo interno essi sono indistinguibili. Per analogia potremmo affermare che cervello produce il pensiero, il pensiero ha bisogno del cervello per essere prodotto ma né l’uno né l’altro sono a se stanti, l’uno ha bisogno dell’altro. In ogni individuo esiste una dimensione che oltrepassa la materia e che permette di aprire una finestra sulla complessità dell’uomo e della sua stessa vita. Inoltre il pensiero ci permette di metterci in contatto con l’infinito per farlo entrare al di dentro di noi. Le domande che ci stiamo ponendo hanno affannato gli antichi filosofi greci e sono state alla base del pensiero platonico ed aristotelico. Forse il loro punto di arrivo è nella sintesi di San Tommaso D’Aquino che introduce il concetto di unitotalità o unità duale dell’essere umano. L’essere umano è una unità in cui “agere sequitur esse”, in questa vita non si possono distinguere l’anima ed il corpo come se fossero due sfere distinte alla Cartesio. È a partire da queste considerazioni che apro questo numero della rivista Olos e Logos per tentare una prima sintesi tra le ultime sbalorditive scoperte delle neuroscienze e quanto ci insegnano antiche tradizioni mediche come quella cinese che affronta il problema del mentale a partire dallo shen. I radicali che compongono il suo ideogramma coniugano all’interno dell’uomo gli influssi del cielo in un periodo di tempo all’interno di un ciclo che si perpetua, rappresentano cioè una forza celeste sovranaturale che si manifesta nel tempo e nello spazio della vita dell’uomo e può svilupparsi fino a renderlo saggio a donargli la sapienza.

Lucio Sotte