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le legherai come segno sulla mano e ti saranno come pendagli tra gli occhi; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”. (Deut, VI, 4-9) Ciò che emerge è un legame fortissimo di sangue e soprattutto di cuore, dove in tutto pulsa la volontà di seguire la legge Ebraica espressa nella Torah come è evidente nel prosieguo di questa preghiera: “Se ascoltando obbedirete ai miei precetti, che vi ordino oggi, di amare il Signore vostro Dio e di servirlo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima, Io darò la pioggia alla vostra terra a suo tempo, la pioggia autunnale e la pioggia primaverile, e così potrai raccogliere il tuo grano, il tuo vino e il tuo olio. Ti darò l'erba nei campi per il tuo bestiame: mangerai e sarai saziato. Ma state in guardia che il vostro cuore non sia sedotto, e non vi allontaniate per servire altri dèi e prostrarvi ad essi. Perché l'ira del Signore si accenderebbe contro di voi; chiuderà il cielo e non vi sarà pioggia, la terra non darà i suoi prodotti e voi sparirete presto dalla terra buona che il Signore vi dà”.
Il potere del cuore per molte popolazione mesoamericane era talmente forte da compiere sacrifici umani nei quali era prevista l’estirpazione dell’organo ancora pulsante per essere offerto al Dio sole.
Ed è proprio perché paragonato in molte culture all’energia del sole che viene ritenuto la fonte principale della vita.
Nell’antico Egitto il geroglifico del cuore era a forma di vaso. Questo conteneva la memoria e la verità. Era insomma una sorta di software della persona defunta e, per questo motivo, veniva posto al centro del defunto imbalsamato; unico organo a non essere posto nei vasi canopi.
Sempre nell’antico Egitto, un altro interessante rito che sottolineava l’importanza di questo organo era la pesatura del cuore del defunto da parte dei sacerdoti. Il peso del cuore era confrontato con il peso della piuma di Maat, dea della verità e della giustizia. Se il cuore era in armonia con quello della dea e quindi né più pesante né più leggero, solo allora il defunto poteva essere ammesso nel regno dei morti dove la sua anima sarebbe vissuta in eterno. In caso contrario il defunto veniva gettato in pasto a una divinità metà ippopotamo e metà coccodrillo.
Gioia espressa e gioia repressa
“Il dolore può bastare a se stesso, ma per apprezzare a fondo una gioia bisogna avere qualcuno con cui condividerla”, (Mark Twain).
Quando ci esprimiamo attraverso i sentimenti quello della gioia è sicuramente il più effimero soprattutto oggi con i timori, le preoccupazioni e le ansie che crescono in ogni ambito della nostra vita. L’antica etimologia della parola gioia ci rimanda al termine sanscrito “Yui”, lo stesso dal quale, non a caso, deriva la parola Yoga che potremmo tradurre con “unione dell’anima individuale con lo spirito universale”.
Definire quindi la gioia un’emozione sacra può sembrare azzardato soprattutto nella nostra società occidentale che la lega spesso al possesso di oggetti
materiali o momenti particolari o la confonde con il termine “felicità” inteso come “lo star bene”. Sono molti gli psicologi moderni che hanno trattato il tema della felicità con differente enfasi e profondità, analizzando degli indicatori ben precisi e sviluppando delle scale di misurazione più o meno pratiche; tutti, in ogni caso, concordano nel sostenere che la felicità sia legata all’interpretazione che noi diamo alle condizioni esterne in cui si vive.
La gioia invece è qualcosa di più profondo, legato intrinsecamente all’animo, capace molto velocemente di invadere tutto l’essere umano con una forza dirompente che poi difficilmente abbandonerà la persona.
I kabbalisti e i mistici ebraici sono convinti che per provare la gioia autentica bisogna essere orientati a ricercare in sé continui cambiamenti. Per ottenere questo occorre collegarsi totalmente con gli effetti a lungo termine delle azioni che compiamo lasciando perdere, attraverso una solida disciplina, tutto ciò che può essere solo un piacere effimero di un dato momento. In altre parole si ottiene la gioia solo quando si è in grado di sentire che tutte le nostre azioni, realizzate con spirito aperto e sincero, producono conseguenze rivolte al bene.
La gioia è quindi possibile se si riesce a vedere il disegno complessivo, una visione globale capace di coinvolgere positivamente, a catena, tutto ciò che avvicina.
Se aspiriamo a questa condizione capite che il percorso non è semplice e prevede la messa in discussione, continuamente, di noi stessi, nel profondo.
Anche la visione taoista non si discosta molto: “Perciò il saggio è vestito di miseri abiti, ma nasconde una giada nel petto”(Tao Te Ching, 70). Quella della gioia è un’energia inesauribile, una forza che si rinnova continuamente e “la giada nascosta nel petto” altro non è che una visione alternativa. Ma alternativa a cosa? A tutte le volte che potremmo gioire e lasciare fluire questa emozione, ma non siamo capaci di farlo o preferiamo non dimostrarlo.
Sempre secondo i Taoisti chi sa gioire ottiene continui risultati nel lungo periodo. Al contrario di chi è compulsivo che, pur ottenendo risultati nel breve periodo, ne esce sempre logorato.
Gli antichi samurai giapponesi sapevano che anche se il loro dovere esteriore era la lealtà verso il feudatario, quello interiore era la crescita spirituale. Difficile poter conciliare l’essere pronti alla guerra e a morire con gioia; loro ci riuscivano attraverso la “Misogi” o “rito di pulizia”.
Dalla lucidatura di armi e armature, alla ripulitura del corpo e dell’anima, la pulizia era un esercizio continuo, quotidiano reso perfettibile da riti ben precisi in diversi momenti del giorno.
Molto tempo era certo dedicato all’addestramento continuo, ma altrettanto veniva utilizzato per la meditazione perché senza un’anima profondamente pulita era difficile poter ottenere buoni risultati con il resto: un po’ come mettere vestiti perfetti e puliti su un corpo sudicio e su
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