Page 71 - Olos e Logos n°11
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marziale, si verrebbe facilmente derisi. L’allievo deve essere umile, accettare le critiche “Il legno viene squadrato con la riga e il compasso; le persone conservano il loro posto accettando le critiche. Se si ascoltano le questioni del mondo attraverso le orecchie di un solo individuo, non c’è niente di meglio delle critiche. (...) se vuoi aprirti alle critiche, è sufficiente accogliere un’ampia gamma di opinioni, svuotando te stesso per ascoltarle”. (Takayama Kentei).
Solo in una fase avanzata l’allievo passa di livello. Come sempre è il maestro a capire quando l’allievo è pronto a cominciare l’addestramento vero e proprio: il tema principale da affrontare è la capacità di misurarsi con la prontezza. Maestro e allievo non si risparmiano dando e ricevendo, alternando le fasi tecniche a quelle teoriche e spirituali. Solo la serenità e lo spirito di perseveranza dell’allievo possono evitare l’abbandono della scuola. È il momento del “fare”, della ripetitività continua ed esasperante, del misurarsi in rapidità, destrezza, e sicurezza coi compagni più avanzati. Non c’è tempo né per domande né per capire: il corpo deve reagire alle stoccate in modo automatico, meccanico e la mente non deve pensare, ma essere presente nel momento con parate e colpi. Nel kenjutsu (trad. “arte della spada” inteso come arte nell’utilizzo della katana, la spada samurai) ogni volta che l’avversario colpisce fa male, ma non è dolore fisico, è un dolore profondo che colpisce il cuore portando dentro l’anima una ferita che può essere sanata solo con l’imparare. È la “pratica per la pratica” in cui l’umiltà dell’allievo sta nello sfidarsi a migliorare senza chiedere troppo a se stesso. In questa fase la fretta demolisce: l’insegnamento è che se vuoi combattere devi prima imparare a vivere. La grande differenza è come lo spirito sa reagire, sul tatami del dojo così come nella vita. L’allievo impara in fretta che dentro o fuori le mura della sua scuola non esiste più differenza e che lui stesso sta diventando la spada che brandisce o le mani che utilizza nelle leve.
Ogni singolo kata è un mare infinito di elementi tecnici e l’allievo impara il senso della scelta: velocità o eleganza, continuità o precisione tecnica, calma e controllo o scatto fulmineo? Il kata diventa l’allievo, l’allievo diviene kata in un giorno in cui forma e sostanza non si distinguono più amalgama comune di un’unica necessità: la ricerca della perfezione. Allora l’allievo è pronto all’ultima fase: coltivare lo spirito della via per percorrerla tutta l’esistenza.
La memoria tra insegnanti e maestri. Ho parlato di maestri e di allievi, ma spesso
confondiamo i maestri con gli insegnanti. Sempre Adachi Masahiro insegnava “Un adepto molto abile è colui che ha raggiunto la calma. Un maestro realizzato è colui che ha raggiunto la maestria. Un tecnico della calma mentale, che padroneggia perfettamente tecniche e principi è chiamato adepto. Ci sono persone anche tra gli aggressivi e gli scaltri, ma a causa della loro ignoranza delle tecniche e dei principi non possono essere chiamati adepti. I tecnici giunti allo stadio in cui la mente è imperturbabile, totalmente istruiti in tecniche e principi, sono chiamati maestri. I cosiddetti esperti sono maestri. La sagacia è una qualità presente nei maestri. Oltrepassando qualsiasi razionalizzazione, non può essere scritta o espressa a parole”.
Lo spirito del dojo quanto è vivo? Quanto dei giovani di oggi sono in grado a prepararsi a ricevere un’eredità così antica e importante? Ce lo chiediamo spesso, magari davanti a una pizza, io ed altri amici impegnati nella diffusione della cultura del budo, la via del guerriero samurai. La conclusione è che i tempi sono cambiati, gli ultimi veri maestri, soprattutto giapponesi, sono ormai morti così come molta parte dello spirito delle arti marziali. Durante un’esibizione pubblica un un gruppo di studenti di una scuola di arti marziali tiene la spada d’allenamento come fosse una mazza da golf. Chiamato in causa faccio presente cosa rappresenta; mi rispondono che anche il loro insegnante glielo rammenta spesso...
Eppure credo che il mondo là fuori dal dojo sia sempre lo stesso: non si lotta per la sopravvivenza fisica, ma per avere un valore nella società, per trovare un lavoro o per difenderlo.
Anche nel Giappone stesso la tradizione in sé del dojo è morta: ricordo, durante uno dei miei corsi Samurai Lab di essere stato preso totalmente d’assalto da uno stuolo di giapponesi ospiti dello stesso albergo dove svolgevo le sessioni. Dopo le foto di rito con me in abito da samurai ho potuto costatare la loro sorpresa nel sapermi praticante. Eppure lo spirito dei samurai è ancora vivo inconsapevolmente in tutta la cultura giapponese, nei loro gesti, nel loro modo di porsi nei confronti del lavoro e dei risultati da perseguire. Ogni giapponese è inconsapevolmente figlio di un samurai che gli impone di onorare la famiglia cui appartiene attraverso ogni suo comportamento.
Del resto la paternità di molte scuole è passata da maestri giapponesi a insegnanti italiani che nell’arco degli anni si sono distinti per abilità soprattutto tecnica e stilistica i quali purtroppo, con tutta la buona volontà possibile non potranno avere tutto quel bagaglio culturale che solo pochi sono riusciti a raggiungere soprattutto vivendo in Giappone per molto tempo.
L’occidentalizzazione delle scuole marziali impone metri di misura differenti dalla tradizione. Agli allievi non basta sentirsi sempre più coinvolti nelle scelte e programmazioni pedagogiche di un maestro. Gli allievi occidentali devono misurarsi con cinture, dan, esami e commissioni che valutino il loro grado di preparazione. Questo fa morire lo spirito della pratica per la pratica imponendo agli allievi rivalità e concorsi come in una qualsiasi scuola e anteponendo le conoscenze e la prestanza tecnica a quella spirituale, spesso accantonata e ridotta alla sola ricerca personale.
La differenza tra maestri e insegnanti è proprio questa: il fermarsi esclusivamente alla tecnica, all’aspetto esteriore di un esercizio o di un kata ben fatto e non di un percorso educativo (nel rispetto della vera e propria etimologia del termine ex- ducere, portare fuori) dove prima è avvenuta una forte maturazione interiore.
Trovare un vero maestro è veramente difficile, raro e soprattutto richiede una ricerca molto profonda, una chiarezza di intenti con il proprio insegnante che deve saper scegliere e aiutare il praticante a farlo nella marea di proposte che ormai ogni città possiede.
La deresponsabilizzazione dei ruoli, tipica del nostro momento storico, colpisce anche questo settore: chi dirige un dojo deve fare i conti con le
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DIALOGHIDIMEDICINAINTEGRATA autunno 2014


































































































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