Page 70 - Olos e Logos n°11
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inclinazioni, le capacità, la voglia di imparare, la sopportazione fisica e mentale. Spesso all’uscita di un film di successo sui samurai corrisponde un aumento degli allievi, ma la via è lunga, il maestro lo sa bene e deve fin dall’inizio riuscire a dare a tutti i giusti insegnamenti per poter progredire. La prima lezione che il maestro impartisce è una lezione di umiltà.
Tutti nel dojo sono uguali partendo dal semplice principio che tutti devono continuare a imparare.
“Anche a una persona intelligente può capitare un pensiero errato su mille, all’ignorante invece capita di averne spontaneamente uno giusto su mille (...) per conquistare le persone bisogna conoscere i loro punti di forza. Per conoscere i loro punti di forza bisogna essere umili con gli altri”. (Takayama Kentei). Così il maestro parla e si pone con autorità e saggezza dispensando gli insegnamenti ricevuti come qualcosa di prezioso, ma soprattutto agendo con l’esempio e con uno stile di vita che sia consono agli insegnamenti. Per ottenere questo è indispensabile che il maestro sappia temprare il cuore di ogni suo allievo, tracciando la sua personale via all’interno dello spirito della scuola.
Naganuma Muneyoshi (1635 – 1690) era uno studioso di guerra e, nonostante le perentorie e continue richieste era restio ad insegnare. Spesso, nelle sue rare lezioni, anticipava la pratica con degli insegnamenti confuciani ammettendo la necessità delle armi, ma ripudiando l’aggressione senza senso. Muneyoshi diceva: “Il compito del samurai è quello di onorare le virtù civiche e adempiere ai doveri militari, consacrando se stesso con piena lealtà a difesa della nazione. Questo perché le questioni civiche e militari sono come l’esterno e l’interno: se uno dei due aspetti viene trascurato non puoi seguire la vera via. Un uccello può volare perché batte entrambe le ali, un cocchio può avanzare perché entrambe le ruote girano (...) per questo si dice che le armi sono i germogli del guerriero, la cultura è il seme. Se non hai il seme, come puoi coltivare i germogli?”.
Il metodo di insegnamento a cui molti maestri fanno fede deriva dalla filosofia Zen. Questo è basato sul senso dell’intuizione. Il maestro ha insomma il compito di creare nell’allievo una sorta di percezione intuitiva che, in molti testi di arti marziali viene definita la “palestra dell’anima”. Non si tratta di “copiare” le singole azioni, ma attraverso un lungo processo mentale “renderle proprie”. Nelle scuole samurai vigeva la ferma convinzione che la spada fosse “l’anima” stessa del samurai. Per questa ragione non poteva essere utilizzata casualmente, ma diveniva oltre che simbolo esteriore del potere del samurai, un vero e proprio “prolungamento” di quest’ultimo. Per ottenere questo serviva intuito. Il maestro Daisetz Teitaro Suzuki (1870 – 1966) descriveva ai suoi allievi il concetto dell’intuito in questo modo:
“Per esprimere se stesso, l’intuizionismo richiede indicazioni più che idee, e tali indicazioni sono enigmatiche e non-razionali. Esse sono timorose delle interpretazioni intellettuali. Esse hanno un’avversione risoluta nei confronti delle perifrasi. Sono come lampi di luce. In un batter d’occhio sono già svanite”.
Ma tutti gli sforzi del maestro sono vani se non riesce ad avviare un processo educativo di seinshin
tanren (精神 鍛錬) ovvero di “formazione spirituale”. Il vero nemico del maestro che parla e insegna è l’io dell’allievo e spetta a lui spezzarlo sul nascere
creando in lui una mente attiva e proattiva e una reale sincerità di cuore. Ogni desiderio egoistico che nasce nell’allievo va allontanato con la pratica divenendo una vera e propria “autoattività continua” che cioè non termina nello spazio del dojo, ma prosegue nella vita di tutti i giorni.
Quando il maestro parla questo concetto di “autoattività” è quello che crea la base per la quale l’allievo debba trovare la personale motivazione ad essere addestrato. Cosa significa? Significa che il maestro deve saper indurre nell’allievo lo stato di addestramento non come una pratica sportiva, ma qualcosa di essenziale per la propria vita.
La comunicazione silenziosa in questo caso vale più di milioni di esempi o meglio, l’esempio entra nell’allievo senza parlare: è il momento dell’allenamento diretto con lui perché l’allievo è cresciuto e si accorge che il vero combattimento è stato con se stesso.
L’allievo: imparare la memoria Chi si propone di praticare un’arte marziale deve
subito fare i conti con la fatica: e nel dojo tutto è faticoso. Stare seduti in seiza (tipica posizione inginocchiata che ha lo scopo di creare nell’allievo il senso della sicurezza ottimale con se stesso e con gli altri, insegnare il senso dell’economia degli spazi, e favorire il rafforzamento fisico) è faticoso, come stare ritti in piedi e respirare in modo coordinato, lo sforzo fisico è proporzionale all’esercizio, ma comunque sempre fatto per irrobustire il corpo e prima di esso la mente e lo spirito. In molti dojo, soprattutto anticamente, l’allievo doveva prima di tutto essere accettato e questo richiedeva prove che al giorno d’oggi riterremmo disumane. Qui l’aspirante allievo doveva essere in grado di convincere il maestro di saper possedere forza e carattere.
Nel dojo, ora come allora, il primo livello di apprendimento e addestramento era il tirocinio tecnicamente definito gyo ovvero “luogo per lo studio della via”. In questa fase l’allievo si predispone a imparare ad appropriarsi di un giusto stato d’animo. Molti maestri sono convinti che questo avvenga sottomettendosi al Kamiza. Il primo scoglio è la formalità del maestro che non deve essere visto come un amico o un semplice insegnante: il maestro incarna in tutto e per tutto gli insegnamenti e l’arte marziale della scuola. Secondo scoglio è l’etichetta della scuola: convenzioni, regole, atteggiamenti. Spesso l’allievo impara questo più che dal maestro dagli allievi più anziani e nella maggioranza dei casi questo processo avviene per imitazione. Soprattutto per i più inesperti il dojo durante il tirocinio non è altro che un luogo di esercizio fisico. Le tecniche da imparare per muoversi secondo i vari kata (型: trad. “forme”. Sono movimenti codificati che rappresentano il combattimento nelle varie fasi) sono molte, diversificate, a volte non hanno una difficoltà progressiva e impegnano soprattutto la memoria rivelandosi a volte noiose per la ripetitività necessaria per acquisire scioltezza nell’eseguirli.
La dose di umiltà e di resistenza richiesta all’allievo è immensa perché subito ci si sente goffi, impacciati, poco coordinati nei movimenti e nella respirazione e, se non fosse per l’ambiente
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DIALOGHIDIMEDICINAINTEGRATA autunno 2014

