Page 12 - Olos e Logos n°11
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una propria identità, la quale si oppone alla loro riduzione a “prodotti” del soggetto? Come evitare, insomma, da un lato l’assolutizzazione dell’oggetto e, dall’altro, l’assolutizzazione del soggetto?
Cercare di rispondere a queste domande impone che si analizzi proprio il concetto di “relazione”, il quale, assieme al concetto di “realtà”, costituisce il centro speculativo di ogni progetto volto a conoscere, di ogni ricerca, la quale si specifica sempre e comunque come rapporto tra un soggetto conoscente e un oggetto che deve venire conosciuto.
9. Il concetto di relazione
Che cosa si intende allorché si usa l’espressione “relazione”? Ordinariamente, si fa riferimento ad un costrutto costituito da due estremi e da un medio. Gli estremi sono i termini relati, il medio è il nesso che li vincola. In tale configurazione, anche il nesso acquista valenza ipostatica, ossia si presenta come un nuovo termine, il termine medio: quid medium.
In questo costrutto i termini estremi si trovano in una situazione particolarissima: essi, per un verso, devono avere una propria identità, perché solo così possono differenziarsi; per altro verso, devono avere un'identità che si apra, per così dire, all'influsso della differenza, poiché altrimenti non si potrebbe parlare di relazione, la quale si dispone necessariamente tra due identità.
Proprio questo status si rivela intrinsecamente problematico. La sua problematicità è stata posta in evidenza già da Platone nel Parmenide[1] e consiste nel fatto che, se il medio si colloca tra gli estremi, allora esso, per questa sua collocazione, non può non instaurare una nuova relazione con ciascuno di essi, riproducendo la nota aporia detta del “terzo uomo all’infinito”. L’aporia, propriamente, consiste in questo: assumere la relazione come un fatto, come un dato – non come il riferirsi in atto di un termine all’altro, ma come il fatto del loro avvenuto riferimento –, moltiplica le relazioni all’infinito.
Il costrutto triadico (mono-diadico) non ha il valore di una tensione, che sia immanente all’identità di ciascun termine e la spinga oltre la sua determinatezza formale, ma riduce la relazione ad un “dato”, che subentra a posteriori e si pone estrinsecamente rispetto all'identità dei termini. Questi ultimi sono descritti dall'ordine formale – ossia dalla forma ordinaria del conoscere – come esistenti a prescindere dalla relazione e come in grado di “entrare” e di “uscire” da essa, proprio in virtù di questa loro “autosufficienza”.
Il discrimen che sussiste tra la concezione speculativa e quella ordinaria si colloca proprio qui: per la concezione ordinaria, la relazione è un modo, una forma di considerare i dati; questi, che pure esistono ciascuno con una propria identità, possono venire anche messi in relazione l'uno con l'altro, e diventano così “termini”. Di contro, la considerazione speculativa riconosce che la relazione costituisce intrinsecamente l'identità, giacché il riferimento alla differenza si impone innegabilmente e non è un semplice modo d'essere del dato, uno dei tanti possibili. I dati, concettualmente, sono dei termini, dunque la loro identità merita di venire attentamente ripensata.
Ciò che ci proponiamo di evidenziare è quanto segue: la considerazione ordinaria – che è formale
perché si sforza di mantenere la relazione come “medio” – si trova a negare ciò che essa stessa è costretta, per altro verso, necessariamente a postulare. La considerazione speculativa incalza quella ordinaria proprio su questo punto nodale, e lo fa in virtù della domanda fondamentale, la domanda di verità: la relazione, intesa come costrutto, è effettivamente intelligibile?
La domanda fondamentale si precisa nelle altre: che cosa implica il mantenere una dualità all’interno dell’unità del riferimento? Come si fa a mantenere l’identità dei termini insieme all’essere l’uno il riferimento all’altro? Pervenire alla consapevolezza del limite di intelligibilità della relazione, ridotta a costrutto, significa che di essa ci si può sbarazzare, sostituendola? Oppure il costrutto permane comunque inevitabile, anche se di esso si dimostra la non innegabilità (la non verità), e permane inevitabile per il fatto che solo in forza del costrutto si configura l’architettura dell’esperienza e del conoscere?
Per rispondere a queste domande, riprendiamo l’analisi dal punto in cui l’avevamo interrotta. La determinatezza dei termini – essenziale al configurarsi formale della relazione – dice che ciascuno dei due ha una sua identità e l’identità impone che il primo termine si ponga con una sua consistenza, autonoma e indipendente da quella del secondo (e viceversa). Se non che, se l’autonomia e l’autosufficienza fossero totali (assolute), allora i termini non potrebbero venire considerati in relazione l’uno con l’altro. Se il primo termine, che indichiamo con la lettera “A”, si ponesse a prescindere dal secondo, “B”, allora non si potrebbe affermare che essi sono relati.
La conseguenza è questa: né ad “A” né a “B” possono venire attribuite delle identità che valgano per la loro assoluta indipendenza; piuttosto si deve parlare di indipendenza relativa.
Per converso, allorché si parla di relazione, si intende bensì una dipendenza tra i termini, ma questa stessa dipendenza, che pure non può non sussistere, non può valere come assoluta: se la dipendenza fosse assoluta, allora l’un termine si capovolgerebbe immediatamente nell’altro, si con- fonderebbe con l’altro, così che entrambi verrebbero meno, venendo meno la determinatezza di ognuno (che poggia sulla loro identità e che consente di distinguerli), e verrebbe meno,a fortiori, anche la relazione. Con questa conseguenza: anche la dipendenza va intesa in senso relativo.
Si dovrà pertanto affermare che la relazione si costituisce come tale solo conciliando due momenti, che sono però tra di loro inconciliabili, almeno secondo il principio di non contraddizione: il momento della relativa indipendenza dei termini e il momento della loro relativa dipendenza. Eppure è su tale conciliazione che poggia tutta l’impalcatura della teoria e della prassi, che alla teoria è vincolata e subordinata.
Vogliamo qui ribadire che, poiché ogni identità determinata (ogni “A”) si pone per il fatto che si riferisce alla differenza (a “non-A”), il discorso che viene fatto ora per la relazione non può non estendersi ad ogni determinazione empirica, ad ogni “fatto”: il dato, ogni dato, viene assunto come una autentica identità, ossia come se si potesse prescindere dal suo rapporto con ogni altro dato –
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DIALOGHIDIMEDICINAINTEGRATA autunno 2014

