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potenziare la dimensione relazionale della cura che è purtroppo spesso trascurata a causa di problemi organizzativi e di tempo.
Seconda fase Applicazione della meditazione
Gli ultimi incontri sono tenuti, invece, dallo psicologo di riferimento e riguardano il percorso di meditazione. Partendo da un’auto presentazione delle partecipanti, per inquadrare le loro storie di malattie e le loro convinzioni a riguardo, si procede con l’introduzione al concetto di meditazione. Vengono fornite subito le istruzioni basilari per poter poi insegnare loro un primo esercizio di presenza mentale, che dovranno ripetere a casa il maggior numero di volte possibile, fino all’incontro successivo. Su questo punto può essere utile soffermarsi un momento.
Che cosa significa, quindi, parlare di presenza mentale? Nella nostra vita quotidiana ci capita spesso di fare più cose alla volta o di fare una cosa ed intanto di pensare ad altre. Questo, anche se non ne siamo sempre consapevoli, ci richiede uno sforzo costante e genera uno stato cosiddetto di “lavorio mentale” , ovvero un’attività cognitiva costante e una serie di automatismi di pensiero che affollano e affaticano la nostra mente.
H. Benson, cardiologo della facoltà di medicina di Harvard, ha dimostrato scientificamente che, attraverso la presenza mentale, tutti gli organi e gli apparati del nostro corpo vanno verso uno stato di “coerenza”e quindi verso il loro stato ideale di buon funzionamento. Sono diverse le prove scientifiche che dimostrano, che anche la sola presenza mentale è in grado di generare effetti positivi su memoria, attenzione, concentrazione e di diminuire gli stati di ansia, tensione e stress.
E’ attraverso l’esercizio della presenza mentale che ci si abitua lentamente ad essere più presenti nelle cose che si fanno , che ci si abitua a farle meglio e con maggiore consapevolezza e motivazione. (Benson,1976)
Lo sviluppo della mindfulness e della presenza mentale, infatti, porta ad un aumento della consapevolezza delle proprie intenzioni e aiuta la persona a raggiungere una maggiore chiarezza anche riguardo a ciò che deve essere fatto, cioè a ciò che è salutare e che contribuisce al suo benessere personale.
Le ricerche scientifiche che da tempo si occupano di verificare l’efficacia della mindfulness, ad un livello anche terapeutico, suggeriscono la pratica della consapevolezza può portare a cambiamenti significativi nei domini di diverse funzioni cognitive, come l’attenzione o la memoria. Dalla maggior parte degli studi si evince che, già dalle prime settimane di pratica, aumenta la capacità dei soggetti di dirigere volontariamente l’attenzione alle esperienze del momento presente e che migliorano l’attenzione selettiva e tutte le funzioni esecutive (Chiesa et al. 2011; Segal et al. 2002; Kabat Zinn, 1990).
Per questi motivi si è pensato che unire queste premesse teoriche a quelle della prima fase del protocollo potesse essere il modo migliore per aiutare le pazienti a sviluppare un atteggiamento mentale di consapevolezza ed accettazione nei confronti della loro esperienza presente.
Dopo un primo incontro in cui si gettano le basi per la pratica di meditazione, si procede con il secondo incontro durante il quale si ascolta il resoconto delle partecipanti su come è andata la loro settimana, sulle modalità con cui hanno svolto l’esercizio, sulle difficoltà che hanno trovato per poi procedere con un commento da parte dello psicologo e con l’insegnamento di una nuova parte dell’esercizio, introducendo una specifica visualizzazione. Lo stesso accade anche nell’incontro successivo e nell’ultimo, nel quale viene insegnata la parte conclusiva della visualizzazione, arrivando a completare la pratica meditativa. L’ultimo incontro si chiude con un bilancio complessivo dell’esperienza da parte delle pazienti.
Terminata questa parte di incontri a cadenza settimanale si procede poi con tre incontri a cadenza mensile, per offrire l’opportunità alle pazienti di continuare a trovarsi in gruppo.
All’interno della seconda fase del protocollo viene fatta anche un’indagine di tipo psicodiagnostico. Sono state esaminate e prese in considerazione diverse tipologie di scale ma per la scelta ci si è focalizzati su due punti in particolare: il primo era la necessità di utilizzare uno strumento di valutazione che non fosse troppo impegnativo né a livello di somministrazione, così da andare incontro alle pazienti, né a livello di sgrigliatura ed il secondo era la necessità di scegliere un test che ci permettesse di avere un riscontro connesso sia alla prima che alla seconda fase del protocollo. Si è deciso, così, di far riferimento al POMS (Profile of Mood State; D.McNair; M.Lorr; LF Droppleman, 1971) e di somministrarlo, alle pazienti di ogni gruppo, durante il primo e l’ultimo incontro di meditazione. In Italiano il significato della sigla POMS è “analisi degli stati emotivi” ed infatti il test viene genericamente utilizzato per analizzare aspetti fisiologici e comportamentali ma anche soggettivi ed emotivi (come sensazioni o umori) che possono aver caratterizzato la vita del soggetto nell’ultimo periodo della sua vita. Il test è composto da 58 item, costituiti da locuzioni o aggettivi, che vanno a definire sei fattori in particolare: il fattore “T” (tensione-ansia) che analizza la tensione somatica osservabile sia dall’esterno che dall’interno, attraverso manifestazioni psicomotorie o stati di ansia vaga e diffusa; il fattore “D” (depressione-avvilimento) che si riferisce ad uno stato depressivo accompagnato da un senso di inadeguatezza personale ma anche a sentimenti di inutilità rispetto ai propri sforzi e di isolamento a livello emotivo; il fattore “A” (aggressività-rabbia) che va ad indagare sia sentimenti di rabbia intensa, aperta e manifesta sia sentimenti di ostilità più attenuati e nascosti; il fattore “V” (vigore-attività) che rileva lo stato di vigore, di esuberanza, di energia, di vitalità della persona; il fattore
“S” (stanchezza-indolenza) che, al contrario del fattore di vitalità, si riferisce soprattutto ad una sensazione di noia e alla mancanza di forze ed infine il fattore “C” (confusione-sconcerto) che spesso rappresenta il risultato di un’auto valutazione in merito alla propria efficienza a livello cognitivo.
DIALOGHIDIMEDICINAINTEGRATA estate 2014

