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definizione di “malattia”, oggetto centrale del modello biomedico, si esprime integralmente ed esaurientemente in un’alterazione della norma di variabili biologiche, somatiche e, soprattutto, misurabili. Al medico come principale attore della pratica medica, è affidato il compito di definire la presenza di una patologia nei malati, tramite una diagnosi corretta e di intervenire attraverso delle strategie terapeutiche che sono validate dalle evidenze scientifiche. Tale modello è stato, ed è tutt’ora, quello più diffuso e apparentemente vincente. È un fatto storico che nella società occidentale contemporanea il modello biomedico non solo abbia costituito una base per lo studio scientifico delle malattie e per il trattamento delle stesse ma è diventato l’unica possibile modalità di affrontare la malattia nella nostra cultura, è divenuto il modello “popolare” e condiviso di approccio alla malattia e alla salute. Esso è così profondamente penetrato nella nostra cultura da rendere difficile pensarlo come un modello: come dire ovvio che compito del medico sia quello di diagnosticare una patologia e trattarla e che l’unico modo di affrontare le malattie sia quello biologico. Questo spiega, in parte, le reticenze e le resistenze che la medicina cinese con le sue discipline e le altre pratiche mediche non occidentali hanno incontrato quanto non sono state fatte oggetto di insensati e irragionevoli attacchi dal mondo accademico e scientifico.
I primi consapevoli esempi di una medicina centrata sulla malattia possono infatti essere identificati proprio negli scritti di un clinico seicentesco inglese, Thomas Sydenham. In polemica con le vedute degli antichi e dei suoi contemporanei, che vedevano un legame indissolubile tra il paziente e il suo male, Sydenham affermava che la natura produce delle malattie agendo “con uniformità e costanza al punto che, per la stessa malattia in persone diverse, i sintomi sono per lo più gli stessi, e che si possono osservare fenomeni identici nel male di un Socrate o di uno sciocco”. E ancora: “Nella descrizione di una malattia bisogna distinguere i sintomi propri e costanti da quelli accidentali ed estranei. Chiamo accidentali quelli che dipendono dall’età, dal temperamento del malato e dal modo di trattare le malattie”. In Sydenham è chiara la distinzione tra il malato e la malattia e la considerazione di quest’ultima come cosa in sé, sulla quale deve focalizzarsi in modo esclusivo l’attenzione del buon medico.
Si tratta di una prospettiva nuova, di una concezione ontologica della natura del male, che finisce per prevalere su tutte le altre e che caratterizza anche oggi l’approccio del modello biomedico: la malattia che è cosa diversa dal malato e che è uguale in ogni malato.
Le novità e le conquiste della medicina fin dai primi dell’Ottocento, sono ben riassunte dal clinico francese René-Théophile Laennec, che così scrive: “Il costante scopo dei miei studi e delle mie ricerche è stata la soluzione dei tre seguenti problemi:
- descrivere la malattia nel cadavere per quanto attiene agli stati alterati degli organi;
- riconoscere nel corpo ancora in vita specifici segni fisici, per quanto possibile indipendentemente dai sintomi;
- combattere la malattia con i mezzi che l’esperienza ha dimostrato essere i più efficaci”.
Qua è chiaramente esplicitata la mission della medicina odierna: descrivere la malattia come
entità biologicamente intesa, riconoscerla tramite le sue manifestazioni corporee e, infine, combatterla.
A questa solida struttura del modello biomedico il Novecento non ha molto da aggiungere sul piano ontologico se non diffonderlo e radicarlo nel pensiero e nel ragionamento comune. Sul piano culturale tale secolo segna una linea dello spartiacque se si pensa al successo mediato dall’acquisizione della tecnologia diagnostica e della terapia farmacologica. Sul piano infine metodologico si apporta un’unica grande novità: l’introduzione del metodo sperimentale, attraverso il quale vengono confermate e oggettivate le acquisizioni della medicina. In particolare la dimostrazione dell’efficacia di un trattamento, qualunque esso sia, non passa più dall’esperienza del singolo ma deve fondarsi sulle prove scientifiche; una medicina basata sulla sperimentazione controlla il soggettivismo di chi è trattato e di chi cura, mentre la ripetibilità degli esperimenti fornisce una totale garanzia dell’affidabilità e dei trattamenti testati.
Attraverso questi passaggi (il radicamento nel dualismo cartesiano, l’ipotesi della realtà ontologica delle malattie, l’affermarsi dell’anatomia patologica, le scoperte della biologia e l’introduzione del disegno sperimentale) si giunge a grandi passi a ricostruire le fondamenta della medicina odierna e di quel modello disease centred che, almeno implicitamente, la caratterizza.
Si tratta di un modello rigorosamente biologico, fondato nella fisicità degli agenti patogeni, delle alterazioni d’organo o di tessuti, della farmacologia, un modello che si è fatto strada attraverso l’applicazione rigorosa del metodo scientifico. Esso identifica chiaramente l’oggetto del suo interesse, la malattia, e definisce tale oggetto come l’alterazione di precisi parametri biologici.
Il medico in questo modello deve raggiungere due scopi: in primis identificare e classificare la malattia attraverso i suoi segni e i suoi sintomi e, successivamente, utilizzando questa classificazione, contrapporre alla patologia una terapia (farmacologica e non) che scientificamente si è dimostrata efficace in precedenti trials controllati e randomizzati.
DIALOGHIDIMEDICINAINTEGRATA estate 2017


































































































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