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pensiero, invece, è mediata, dal momento che il pensiero accetta la differenza e la ingloba come suo momento, un momento che viene bensì posto, ma anche trasceso.
I contenuti del pensiero, insomma, hanno valenza duplice: valgono come “altri” dal pensiero, ma anche come ciò che viene pensato e, quindi, come essenziali al porsi del pensiero in forma determinata.
Da un certo punto di vista, quindi, se il pensiero non pensasse qualcosa, sarebbe pensiero di nulla: non sarebbe pensiero affatto. Per questo aspetto, il pensiero fa della differenza il momento essenziale del suo costituirsi. Da un altro punto di vista, il pensiero non solo deve potersi differenziare, ma deve anche riconoscersi in questa differenziazione. E può riconoscersi nell’altro solo perché è uno in se stesso, ossia per la ragione che il livello in cui si differenzia non è quello nel quale è uno in quanto atto.
La terza considerazione è direttamente vincolata alla precedente. Poiché il pensiero poggia sulla differenza, ma non vi si riduce, esso è essenzialmente l’atto noetico del suo sapersi emergente sulla procedura dianoetica che lo esprime (dispone) come discorso, cioè come linguaggio. Il linguaggio, pertanto, rappresenta la differenza dal pensiero, che tuttavia non si oppone ad esso, ma che si lascia inverare da esso. Nous e dianoia non vanno visti, quindi, come contrapposti, perché l’atto è il fondamento e la procedura è il fondato.
Più precisamente, con l’espressione “nous” riteniamo si debba intendere l’atto di pensiero che vale come visione del noema (del contenuto di pensiero), ossia come quell’atto pensante che pone le condizioni perché il pensato possa venire determinato e descritto, cioè esposto dianoeticamente. Ciò consente di intendere adeguatamente anche l’esposizione dianoetica. Quest’ultima, per un verso, si fonda sull’atto noetico, ma, per altro verso, costituisce la forma determinata in cui l’atto noetico trova espressione: una forma indiretta, perché l’atto pensante (oggettivante) non può venire direttamente oggettivato (determinato) senza venire negato nel suo essere la condizione incondizionata dell’oggettivazione.
L’ipotesi che formuliamo è dunque questa: il pensiero riflessivo può venire considerato la sintesi di atto noetico e procedura dianoetica, ma una sintesi che domanda di venire adeguatamente pensata. L’atto è l’emergere del pensiero sui suoi contenuti, emergere che consente al pensiero di staccarsi anche da se stesso e di porre le proprie forme oggettivate. Queste ultime, invece, sono le modalità in cui il pensiero si svolge, ossia le forme che consentono al pensiero di esprimersi in un discorso (linguaggio), che può essere più o meno formalizzato.
Ebbene, l’essenza del pensiero riflessivo è, a nostro giudizio, quell’intenzione di verità e di unità che anima il conoscere, di qualunque processo conoscitivo si parli, e che, purtroppo, la cultura che oggi si impone in Occidente tende a rimuovere. Precisamente per questa ragione, riteniamo che la cultura tradizionale dell’Oriente possa svolgere un ruolo fondamentale: richiamarci
al senso originario del pensare, quello per il quale si pensa per cogliere ciò che di vero c’è nel mondo. Per pensare il mondo, dunque, lo si deve cogliere
in una visione unitaria, collocandosi idealmente oltre di esso, perché solo così lo si può effettivamente oggettivare.
17. Pensiero riflessivo e concezione naturalizzata della mente
Il discorso svolto, se esaminato alla luce del dibattito che si svolge in quel particolare ambito della ricerca che viene denominato “filosofia della mente”, va decisamente contro corrente. Esso, infatti, non si colloca nella prospettiva naturalista e riduzionista, che si fonda sul principio di chiusura del mondo fisico. Inoltre, non accetta l’assunto di D.C. Dennett[1], il quale, riprendendo G. Ryle[2], afferma la necessità di superare il “dogma cartesiano dello spettro nella macchina”, ossia l’idea di un soggetto che valga come un “Autore Centrale (Central Meaner)”, in grado di dare un senso unitario alle molteplici funzioni psichiche.
A nostro giudizio, l’intento di smantellare il «capire» a favore di sotto-processi «stupidi e meccanici»[3] è legato alla volontà di eliminare ogni emergenza. Quest’ultima viene rifiutata dalla concezione meccanicista sia perché vìola il principio di chiusura del mondo fisico, essenziale per configurare una scienza naturalizzata della mente, sia perché sembra aprire un regresso all’infinito: se si ammette un’emergenza, se ne possono ammettere infinite altre.
Ebbene, il punto debole della concezione meccanicista e riduzionista ci pare si collochi proprio nel suo momento sorgivo, cioè nell’immagine sprezzante dell’autocoscienza definita lo “spettro nella macchina”. In effetti, il problema non è l’autocoscienza quanto la definizione di “macchina”, che invece sembra ovvia a coloro che propongono la naturalizzazione del mentale. Ci sentiamo di obiettare quanto segue: poiché il definire (determinare) non può non implicare il differenziare, ne consegue che è possibile determinare qualcosa come automatico (una macchina) solo a condizione che vi sia qualcosa che, invece, automatico non è. E postulare il “non automatico” equivale a richiedere un pensiero cosciente.
Del resto, senza un pensiero cosciente e riflessivo viene preclusa la possibilità di “definire”, e questo sembra essere sfuggito a Dennett, il quale, non valorizzando il “sapere”, ammette implicitamente di non sapere la ragione del suo prescindere dal sapere.
A nostro giudizio, insomma, è precisamente il sapere che fonda ogni definizione-determinazione- affermazione, che non può essere automatica senza aprire un regressus in indefinitum. Ciò che è automatico, infatti, assume acriticamente una premessa e la svolge in conformità a regole; ma, poiché la premessa è solo assunta, essa postula il processo automatico dell’assumere, che a sua volta postula una nuova premessa, e così via all’infinito. Non siamo di fronte, quindi, ad una procedura dianoetica, ma ad una procedura solo meccanica e la differenza tra i due tipi di procedure è molto importante.
Per evitare il circolo vizioso, pertanto, non si può non ricorrere ad una fondazione, cioè ad un
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