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della situazione in cui mi trovo ad operare. Perché il combattimento rispecchia la mutevolezza della vita, delle relazioni, in cui cosa sia “debole” e cosa “forte” non può essere deciso a priori, ma dipende da cosa sto facendo, dall’obiettivo che intendo raggiungere, da chi mi trovo davanti, o al mio fianco, dal terreno su cui cammino e innumerevoli altre variabili. Per questa ragione l’arte marziale, se intrapresa onestamente, non punta al padroneggiamento di astratte “tecniche” da applicare in circostanze predeterminate – cosa che renderebbe impossibile l’apprendimento stesso, essendo infinite le variabili e le situazioni di combattimento – ma mi fa partire da me, da ciò che sono, mette in gioco la mia sensibilità, la mia capacità di pensare col corpo, in situazione, di comprendere cosa fare, come agire volta per volta in relazione a quel particolare evento che ogni combattimento è. Ma in che senso un percorso marziale-filosofico, così inteso, può divenire politica? In mille modi, mi verrebbe da rispondere, la maggior parte dei quali ancora da esplorare. Dei primi accenni si leggono tra le righe di quanto scritto fin ora. Sovvertire un ordine di autopercezione cambia l’atteggiamento e le modalità del mio agire in relazione, del mio agire politico. In questo caso, lo cambia facendosi corpo e prassi. Il corpo affina il suo linguaggio, la sua capacità di ascoltare e dire tramite la pratica. È dal familiarizzarmi con le mie potenzialità, dalla comprensione psico-fisica che qualcosa “la posso fare”, contrariamente a quanto mi era stato sempre detto, che scatta un diverso approccio, una sicurezza che non teme di essere messa in discussione, perché vive in dinamica. La coscienza corporea manifesta le sue acquisizioni con una dirompenza totalizzante, radicale. Banalmente, il corpo non mente. E quando è la coscienza corporea che ha esperito e vissuto la potenzialità della forza del mio corpo-donna, ciò diviene un punto di non ritorno.
Io non sono un corpo debole. Non sono una vittima potenziale che qualcun altro è chiamato a difendere. Cosciente della mia forza, la faccio agire nei termini e nei modi che ritengo adatti. O, per meglio dire, ritengo adatti in un particolare contesto relazionale.
Il lavoro psico-fisico ed emozionale sulla mia forza mi apre nuove strade, in cui anche rassicuranti pre-concezioni vengono a cadere.
La forza, ad esempio, può trasformarsi in violenza, anche quella che si sprigiona in un corpo- donna. Lungi da essere prerogativa di un non meglio definito “maschile”, la violenza è una delle possibili scelte della forza, e come tale si declina in ogni corpo. Avrei voluto dire “derive”, ma non sarei stata onesta. Per me la violenza, come forza disequilibrata, rappresenta una deriva, ma ritengo che sul rapporto forza-violenza ci sia ancora molto da pensare, e molte presupposizioni e pregiudizi da decostruire prima di giungere a delle definizioni. L’esperienza mi insegna che la violenza non va rigettata a priori, a rischio di rimanerne succubi o schiavi, sia quando la si esercita che quando la si subisce. Intendo dire che bisogna entrare in contatto attivo con la violenza che è in me, nelle sue varie declinazioni, per comprenderla e contenerla, non rimuoverla. Conoscerne i modi, le forme. Come la agisco su di me e sugli altri.
Quando, se e perché la mia forza si trasformi in violenza. Quando, se e perché accetto che la forza altrui lo faccia. Farmi, in sostanza, soggetto attivo e consapevole, non vittima. Per questa ragione il contesto offerto dalle arti marziali rappresenta un luogo privilegiato per analizzare tali dinamiche, mettendole in gioco in uno spazio protetto, che ne limiti la capacità distruttiva e mi doti di strumenti per comprenderle. Ciò, nell’ottica di chi scrive, può portare ad un interessante esperienza di capovolgimento delle presupposizioni culturali, più o meno interiorizzate, che concependo il corpo femminile come “debole”, relegano le donne ad uno stato di vittime, volta per volta da dover difendere, o colpevolizzare (e spesso le due dinamiche si manifestano contestualmente, in una paradossalità solo apparente). Nel combattimento esperisco quella particolare declinazione della forza che è la mia, che si origina e si esplica nel mio essere un corpo-donna. Riappropriarsi della coscienza della propria forza, farlo come esperienza non solo teorica, ma corporea, emotiva, è un percorso che, in sé, è politica.
Non solo. Intendo il combattimento come luogo della relazione, in cui imparo a conoscere la mia forza e, contestualmente, quella dell’altro attraverso il linguaggio del corpo, nel suo dare risposte immediate. Quando, anche in un contesto protetto come il ring, metto a rischio me stessa, sono proprio gli elementi e i dispositivi più interiorizzati, meno consci e “istintivi” che determinano le mie azioni, trasformandoli spesso in mere “reazioni”, quindi togliendomi da una dimensione di soggettività attiva, dal terreno in cui sono più forte, per relegarmi in uno stato psicofisico di secondità. La coscienza della mia forza sovverte il paradigma, mi fa agire invece che reagire. E lo fa mettendomi in una relazione attiva, sensibile-sensiente con il corpo dell'avversaria/o: imparo a conoscere nel contempo le mie e le sue paure, le mie e le sue fragilità, i dispositivi che entrambe mettiamo in atto per rispondere al pericolo, i nostri punti di forza. L’avversario/a nell’allenamento diviene compagna di lotta, offrendo la sua disponibilità a mostrarsi in tutta la sua vulnerabilità, ma anche aggressività e assertività. Tutto ciò nello spazio tempo di un pugno, o di un calcio. Impariamo entrambe che tanto più affiniamo la nostra capacità sensibile, di conoscenza corporea delle reciproche dinamiche, tanto più diveniamo forti.
Note
[1] Per una descrizione più puntuale di ciò che intendo con “forza a partire da un corpo di donna” rimando al mio contributo “La forza femminile nelle Vie marziali” in Sensibili Guerriere, a cura di Federica Giardini, Iacobelli, Pavona, 2011
[2] Mi rendo conto che l’utilizzo del termine “corpo” che qui continuo a fare apre a molte possibili obiezioni, prima fra tutte il fatto di continuare ad operare una separazione che, invece, si vorrebbe qui superare. Il problema è quello di dover comunicare qualcosa di differente tramite una lingua, un sistema culturale che non ha termini per dire quella differenza, se non per approssimazioni. Il mio utilizzo del termine “corpo” non intende qui nessuna separatezza sostanziale, bensì vuole esprimere la necessità di uscire da un riduttivismo che vorrebbe ridurre ogni
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DIALOGHIDIMEDICINAINTEGRATA estate 2015

