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marziali che ho praticato e che pratico si sono originate e sviluppate nei contesti dell’Asia Orientale e del Sudest asiatico. La concezione del corpo, dei corpi, dei suoi significati, delle sue dinamiche, così come i sistemi di insegnamento, le modalità dei rapporti che si vengono a creare, i riferimenti ai classici filosofici e letterari si pongono in una weltanshaung diversa dalla “nostra”, che li ha concepiti, pensati e praticati differentemente. L’intercultura, per me, non ha tanto a che fare con teorizzazioni aprioristiche su come si può fondare un dialogo tra orizzonti di senso diversi. L’intercultura che vivo è un’esperienza totalizzante, fatta di incontri reali e destrutturanti, che in primis sento come rapporti sensoriali, emotivi. È il mio corpo-donna che si apre o si chiude a possibili relazioni, in cui anche il mio modo di sorridere, la mia postura, i miei gesti si modificano, nella costruzione di spazi e tempi di dialogo. E il senso di me trova nuove vie. La pratica delle arti marziali può, dunque, voler dire anche apertura di un dialogo con teorizzazioni e prassi radicalmente distanti, che mi dà la possibilità di risignificare il mio corpo secondo direttici differenti che aprono percorsi inediti e, talvolta, sorprendenti.
Una prima generica, banale, ma sempre centrale constatazione è che la gran parte delle arti marziali dell'Asia Orientale e del SudEst Asiatico non conosce la separazione “cartesiana” tra corpo e mente. Tale presupposto ha consentito non solo di pensare diversamente il corpo, ma, soprattutto, di procedere nella direttrice di esplorare il pensiero del corpo, il suo linguaggio e i suoi modi. L’uscita pratica dal paradigma della separazione cartesiana ha avuto su di me un effetto liberante. Ha determinato la riappropriazione del carattere di presenza del pensiero, del suo darsi in contesto e in relazione, di essere, anch’esso, corpo. E non un generico corpo, ma quel preciso e particolare corpo che io sono. Un corpo-donna.
Un corpo che pensa
Il solco cartesiano mi ha da sempre infastidita. Di più. Mi ha umiliata, ferita, tagliata. Ha separato l’inseparabile, me da me stessa. Sono nata a cavallo di un solco, invece che su solida terra. Dove poggiano i mie piedi? Da dove posso trarre la forza per saltare, per correre...o anche solo per camminare se il terreno sotto i miei piedi è spaccato? Perché è nei miei piedi che risiede la mia forza per correre e per saltare. E non solo. Nei piedi e nella loro relazione con la terra.
E se è la testa che il taglio cartesiano mi dice di abitare, governando il mio corpo, la mia personale rivolta passa per seguire un percorso in cui sia il corpo a pensare, a ribadire praticamente (perché pratica è la lingua del corpo) una coappartenenza tra corpo, mente, emozioni, passioni, razionalità che non passi per ridicole gerarchie, per opposizioni laceranti e infeconde.
Sanare il taglio cartesiano, per me, significa riconoscere questa sostanziale, imprescindibile unità nella differenza. Differenza, si, perché se il mio corpo parla - e parla - tuttavia non lo fa nella lingua del logos. Il mio corpo[2] e la mia testa si parlano di continuo, e sembra che i due si capiscano perfettamente. Tranne quando la testa pretende di staccarsi. Nel delirio di volare da sola,
pretende di “logicizzare” il corpo tutto. Si fa pensiero che riflette sul corpo. Il che non sarebbe un male in sé, ma lo diventa nel momento in cui si illude di essere un pilota che guida una macchina, invece che una parte di un organismo vivente. Nulla di nuovo, mi dico, tanto si è detto e scritto sulla centralità del corpo. Ma, appunto, tanto si è detto e scritto. Quanto si è esperito, abitato? Quanto, invece, non si è “colonizzato” il corpo, considerandolo, anche quando si trattava del nostro proprio corpo, come oggetto di studio, o qualcosa di altro da gestire, controllare, guarire, limitare, far godere, disprezzare, esaltare?
Mi rendo conto che parlare di arti marziali come via filosofico-politica femminile e - perché no - femminista possa far alzare più di un sopracciglio. Tuttavia, nella mia personale esperienza, che sto condividendo con un gruppo di giovani “filosofe guerriere”, tale percorso sta portando ad interessanti sviluppi. Molte perplessità nascono nella modalità stessa in cui le arti marziali sono in genere state recepite in Italia, tradotte nel contesto nostrano. L’immaginario che condividiamo presenta le arti marziali come espressione di patriarchismo e machismo, come esaltazione, più o meno velata, di quegli attributi di un “maschile” declinato nelle sue forme più brutali. Nel migliore dei casi si tratta di una gestione di quella violenza che le “donne” rifiutano, o di cui sono presentate tutt’al più come vittime[3]. Da questi presupposti, va da sé che un percorso marzialistico per donne avrebbe solo il carattere di un grottesco scimmiottamento di prassi che “non ci riguardano”. Non nego che molto di questa percezione non sia infondata, ma, ripeto, nella mia esperienza ciò è dovuto più alla “traduzione” dell’arte che all'arte stessa, o comunque, all’interno delle arti marziali sono presenti elementi di sovversione e rivolta che non è possibile ridurre a questo cliché. No solo. Proprio l’analisi della differente teorizzazione e messa in azione della forza fisica femminile può offrire prospettive dislocate da cui far emergere e mettere in discussione presupposti forse non troppo esplorati di tali giudizi.
In primis, quando parlo della mia esperienza marziale, benché avvenuta in parte proprio in quei contesti machisti di cui sopra, non vi ravviso affatto un processo di “mascolinizzazione”. Tutt'altro, le pratiche corporee, le relazioni tra corpi pensanti che vengono ad attualizzarsi nello studio dei percorsi marzialisti mi hanno mostrato in tutta la loro cogenza quanto sia suicidiario – è proprio il caso di dirlo – pretendere di rifarsi ad un'astraente neutralità, o peggio ancora, scimmiottare tecniche pensate per e su un corpo maschile nell’ambito di un combattimento. Riesco ad esprimere appieno la mia forza solo quando riesco ad essere autenticamente me stessa, ovvero a conoscere quelle dinamiche psico-fisiche che sono mie e mie solamente, che sono me. E io sono un corpo-donna. Detto in termini più pratici e banali, se non voglio correre il rischio di soccombere (intendendo questo termine nel suo ventaglio di significati: essere letteralmente “messa sotto”, “soggiogata” e quindi “morire”) devo conoscere a fondo i miei punti di debolezza e di forza, scegliere di volta in volta modi per esaltare i secondi e limitare i primi, a seconda del contesto e
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