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La qualità fondante – questo è il nodo, tanto decisivo, quanto “irritante” – non può non porsi come assoluta, dunque come irrelata, dunque comeindeterminabile.Ildefinirlatale,ossial’averla determinata come indeterminabile, non configura una contraddizione, poiché l'intenzione è solo quella di dire che essa emerge oltre ogni dire: ciò che viene detto non è ciò che essa è in sé, ma la sua necessità, il suo non poter non essere, il suo non poter non venire richiesta da quello stesso ordine formale che poi finisce per contraddirla perché pretende di inglobarla (riducendola a determinazione),ancorchél’abbiarichiestaproprio per il suo valore incondizionato, che le consente di valere come autentico fondamento.
Definirla “identità metafisica” equivale, quindi, ad indicare non altro che la sua esigenza, che è appunto esigenza metafisica di fondazione. Cosa esprime il “qi”, se non questa esigenza metafisica? Se non lo slancio dello spirito verso l’assoluto? Se non l’esigenza di infinito che si manifesta nel finito?
Allorché la qualità metafisica viene determinata, essa viene inscritta nella relazione ed è ridotta a qualitàdeterminata,aqualitàformale:essadiventa un qualunque “A”. Il presente discorso, pertanto, non nega di certo che le cose, che si presentano nell’esperienza, siano determinazioni; ciò che mediante esso si contesta è la pretesa di negare la necessità di una Cosa che ad esse sia irriducibile e che valga come loro condizione.
Con il presente discorso, insomma, si intende affermare che anche la qualità formale, posta in essere dalla relazione e per questo determinata, richiede una qualità che la trascenda, e sulla quale essadevepoggiare:solocosìlaqualitàformalepuò aspirare a mantenere una sua identità che valga in forza di una qualche autonomia e di una qualche autosufficienza.
Se l'autonomia e l’autosufficienza della qualità (identità) metafisica sono assolute – o, per usare un’altra espressione, ideali –, di contro nel caso della qualità fisica si può parlare solo di autonomia e di autosufficienza relative, fermo restando che esse devono venire, almeno in una qualche misura, conservate, se si vuol continuare a parlare di identità.
Il problema è che, quando si parla di identità determinata, si viene risucchiati nel solito circolo vizioso, che la ragione autentica non può certo accettare, anche se la pratica lo impone come insuperabile. Tra la qualità (identità) determinata e la relazione si instaura, infatti, una reciprocità per la quale, se la qualità determinata si pone in forza della relazione, quest'ultima, reciprocamente e scambievolmente, si pone solo in forza dell'identità (qualità) determinata.
Non solo. V’è da aggiungere un altro elemento, che sarà essenziale per procedere nell’analisi: l’identità determinata, proprio in quanto tale, non può non capovolgersi immediatamente nella quantità, poiché essa si trova a postulare la relazione tra due qualità differenti.
I punti che meritano, quindi, di venire opportunamente precisati sono due: da una parte si impone una precisazione in ordine a quanto abbiamo scritto a proposito del principio di identità; dall'altra dovrà venire specificato il capovolgimento della qualità in quantità.
Parlando del principio di identità, per il quale “A” è “A”, non si può non rilevare che esso tende a risolversi nel principio di non contraddizione, che affermache“A”è“A”soloperché“nonènonA”.Ciò che qui vogliamo porre in evidenza è che, se questa risoluzione è inevitabile quando si parla di una identità determinata, l'esigenza di una identità che emerga oltre la relazione permane innegabile.
L'inevitabile è, insomma, inintelligibile, e lo è per questa ragione fondamentale: se l'identità abbisogna della differenza per porsi – anche se di una differenza negata (“A” è negazione di “non A”) –, allora l'identità è in sé differenza, è in sé negazione, è il suo stesso contraddirsi.
Il secondo punto, sul quale merita riflettere, è il seguente: la relazione si instaura tra due identità distinte, in modo tale che, per quel tanto che sono distinte, esse configurano due qualità. La distinzione risulta dunque non solo la relazione tra i termini che la compongono, ma anche l’elemento che qualifica ciascuno di essi per il suo non essere l’altro.
E tuttavia la distinzione è la medesima per entrambi,cosicchénonsicomprendecomepossa qualificarli. Ci si trova ancora in un circolo, quello per il quale la qualità presuppone la distinzione e la distinzione presuppone la qualità, nonostante che, in effetti, l’una tenda a capovolgersi immediatamente nell’altra.
Si potrebbe anche dire: l’uno presuppone il due e il due presuppone l’uno, all’infinito. Od anche: la qualità (l’uno), che ormai è una qualità determinata perché inscritta nella relazione, presuppone la quantità (il due) e, viceversa, la quantitàpresupponelaqualità.
Note
[1] C.G. Hempel, Filosofia delle scienze naturali, il Mulino, Bologna 1968.
[2] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972,
[3] W.V.O Quine, Il problema del significato, Ubaldini, Roma 1966.
[4] B.C. van Frassen, L’immagine scientifica, Clueb, Bologna 1985.
[5] W.C. Salmon, 40 anni di spiegazione scientifica. Scienza e filosofia 1948-1987, Muzzio Editore, Padova 1992.
[6] E. Mach, Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, Einaudi, Torino 1982.
[7] H. Reichenbach, Causdalità e probabilità, in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, Utet, Torino 1969.
[8] E. Cassirer, Sostanza e funzione, La Nuova Italia, Firenze 1973.
[9] R. Carnap, La costruzione logica dl mondo, Fabbri, Milano 1966.
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